Il Patto di Non Concorrenza: Cosa Prevede per Dipendenti e Lavoratori Autonomi

  21 Gennaio 2025

Il patto di non concorrenza è uno strumento cruciale nel diritto del lavoro e commerciale italiano e consente al datore di lavoro di limitare l’attività professionale di un lavoratore per un periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro. Questo accordo, però, deve rispettare precisi requisiti di forma e contenuto per essere valido.

In questo approfondimento esamineremo nel dettaglio cosa prevede la normativa, quali sono i limiti e le implicazioni per lavoratori dipendenti e autonomi, e cosa fare in caso di controversie.

Patto di non concorrenza per i dipendenti: cosa prevede

Il patto di non concorrenza è una delle principali forme di fidelizzazione del prestatore di lavoro, ma, a differenza di altre clausole, opera esclusivamente dopo la cessazione del rapporto. Secondo il Codice Civile, il patto per essere valido deve:

  1. Essere redatto in forma scritta.
  2. Definire chiaramente limiti di oggetto, luogo e tempo.
  3. Prevedere un corrispettivo proporzionato.

La disciplina normativa prevede questi requisiti a pena di nullità al fine di non consentire una riduzione eccessiva della libertà lavorativa del dipendente. Ad esempio, un accordo senza limiti geografici, o che impedisca qualsiasi tipo di attività lavorativa, sarebbe nullo per violazione delle libertà garantite dalla Costituzione italiana.

Patto di non concorrenza con i lavoratori autonomi: come funziona?

Per i lavoratori autonomi e parasubordinati non è previsto un dovere di fedeltà, ma opera un generale dovere di correttezza della parte ed un dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto. Tali principi vietano alla parte di un rapporto collaborativo di servirsene per nuocere all’altra, proprio per tale ragione l’obbligo di astenersi dalla concorrenza è elemento connaturale di ogni rapporto di collaborazione economica.

Tipici esempi di questo obbligo sono per il rapporto di agenzia, il diritto di esclusiva, e per il socio della società in nome collettivo, o il socio accomandatario il divieto di concorrenza.

L’assenza di una normativa specifica per i lavoratori autonomi implica una maggiore flessibilità, che comporta il rischio di clausole squilibrate in danno del lavoratore e dunque richiedono una particolare attenzione.

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Impugnare il patto di non concorrenza: iter e raccomandazioni

L’impugnazione di un patto di non concorrenza può essere necessaria quando le clausole del contratto risultano eccessivamente restrittive, prive di equità, o in violazione delle normative vigenti. Per iniziare l’iter, è fondamentale analizzare il testo dell’accordo con attenzione, verificando il rispetto dei requisiti di validità, come:

  • la forma scritta,
  • l’indicazione precisa di limiti territoriali e temporali,
  • l’adeguatezza del corrispettivo economico.

Tendenzialmente è utile impugnare il patto di non concorrenza a seguito di un’azione intrapresa dal datore di lavoro che ne lamenti la violazione. In genere, infatti, non ha un’utilità pratica intraprendere un’azione preventiva di impugnazione del patto, che rimarrebbe fine a se stessa.

E’ indiscussa la competenza del giudice del lavoro per tutte le controversie concernenti la validità, gli effetti e le violazioni del patto di non concorrenza in ragione del collegamento funzionale tra il patto di non concorrenza ed il rapporto di lavoro. Ciò anche nel caso di patto perfezionatosi sufficientemente alla cessazione del rapporto di lavoro e nel caso di proposizione di un’azione per concorrenza sleale con cui siano convenuti in giudizio il nuovo datore di lavoro e l’ex prestatore di lavoro ritenuto responsabile di aver violato un patto di non concorrenza.

Il corrispettivo nel patto di non concorrenza

L’art. 2125 del Codice Civile stabilisce chiaramente che l’assenza di un corrispettivo rende nullo il patto di non concorrenza, in quanto strettamente legato alla prestazione omissiva del lavoratore. Tuttavia, non definisce criteri specifici per determinarlo, lasciando spazio all’autonomia delle parti per stabilire natura, entità e modalità del pagamento.

La giurisprudenza è costante nell’affermare che il corrispettivo possa consistere non solo in denaro, ma anche in altre utilità economicamente apprezzabili, come la stipulazione di un vitalizio, la remissione di un debito, o il diritto di continuare a risiedere in un appartamento concesso dal datore di lavoro. La forma più comune rimane comunque il pagamento di una somma di denaro, erogabile in modalità unica o periodica, senza vincoli temporali specifici. Ad esempio, il corrispettivo può essere versato al momento della cessazione del rapporto o distribuito durante lo stesso, apparendo in busta paga accanto agli altri emolumenti. È inoltre possibile adottare una soluzione mista, combinando erogazioni durante il rapporto con un conguaglio finale.

La validità del patto dipende dalla proporzionalità tra vincoli e compensi. Il giudice può valutare l’equità del corrispettivo, considerando anche i limiti geografici, temporali e professionali imposti dal patto. Tuttavia, nessun compenso può giustificare una rinuncia totale alla possibilità di reimpiego, pena la violazione delle libertà costituzionali di lavoro e iniziativa economica (artt. 4 e 41 Cost.). In questi casi, i patti eccessivamente restrittivi vengono dichiarati nulli, come accaduto in clausole prive di limiti territoriali e oggettivi, anche se prevedevano corrispettivi elevati.

La casistica giudiziaria offre numerosi esempi, soprattutto riguardanti i casi in cui il corrispettivo viene erogato durante il rapporto di lavoro, sottolineando l’importanza di un equilibrio tra le parti per la validità del patto.

Qual è la durata del patto di non concorrenza?

La durata del patto di non concorrenza varia in base alla tipologia di lavoratore coinvolto.

Per i lavoratori dipendenti, la legge italiana (art. 2125 del Codice Civile) stabilisce un limite massimo di 3 anni, estendibile a 5 per i dirigenti. Per i lavoratori autonomi, invece, come abbiamo visto, non esiste una regolamentazione specifica, ma la durata deve comunque essere ragionevole e proporzionata agli interessi tutelati, evitando vincoli eccessivamente lunghi che potrebbero limitare ingiustamente la libertà professionale.

È fondamentale che la durata sia definita con precisione nel testo dell’accordo. Pattuizioni indefinite o prive di limiti temporali sono considerate nulle, poiché contrastano con i principi di libertà di lavoro sanciti dalla Costituzione italiana. Inoltre, la durata del patto deve essere bilanciata con il corrispettivo offerto al lavoratore: una durata più lunga richiede generalmente un compenso più elevato. Eventuali contestazioni sulla durata possono essere portate in sede giudiziaria, dove il giudice valuterà la congruità del vincolo rispetto agli interessi delle parti e al contesto lavorativo specifico.

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